Le Vette è un altipiano alto ed erboso (circa 7000 piedi). A nord esso si presenta con una facciata alta e dirupata di roccia marcia, su cui si può salire solo per un difficile sentiero, mentre dalle altre parti ci sono solo quattro possibili vie di accesso. La cima è un’ampia depressione simile ad un catino, divisa in due parti da un crinale alto ed erboso che corre da nord a sud. Ad eccezione di pochi massi erratici essa è completamente spoglia di alberi, cespugli o qualsiasi cosa che possa dare una copertura. A prima vista i suoi accessi scarsi e facilmente difendibili sembrano farne una postazione partigiana ideale. In realtà essi danno un senso di sicurezza piacevole ma interamente fasulla. Le vie di entrata sono necessariamente anche le vie d’uscita e, se queste sono bloccate, ogni libertà di manovra, il sine qua non della guerra partigiana, è finita.”

Nell’autunno del 1944 ci sono circa 300 partigiani sulle Vette feltrine e, di questi, un nutrito gruppo viveva presso malga Pietena. Stavano lassù, arroccati, chiedendosi se sarebbero arrivati prima i rifornimenti di armi dagli Alleati, l’inverno o i Tedeschi. Assieme a loro, un gruppo di ex prigionieri di guerra inglesi e il maggiore Harold William «Bill» Tilman che si era fatto paracadutare poco distante per andare a supportare la guerriglia partigiana, a fianco del comandate Bruno e della brigata “Gramsci”.

Con la prima neve arrivarono ai piedi delle Alpi feltrine anche i Tedeschi. Tilman, esperto esploratore e avventuriero, radunò un gruppo di una quindicina di persone e partì alla ricerca di una via di discesa alternativa da quelle montagne che ad ogni ora si trasformavano sempre più in una trappola mortale.

Appena raggiungemmo la cresta, vedemmo sotto di noi i fuochi dei picchetti nemici proprio nella valle che i partigiani speravano di attraversare. Cominciammo la discesa della prima parte, che rassomigliava ad una gola nella zona più fonda, e le prime poche centinaia di piedi consistevano in un ghiaione ripido e ghiacciato con varie chiazze di neve. Presto fummo costretti ad arrestarci, perché la gola cadeva a picco improvvisamente, e allora scrostammo e ripulimmo un certo spiazzo e andammo a letto, per così dire, cioè ci sdraiammo. Avevamo una sola coperta a testa e niente cibo; in più eravamo ad un’altitudine di 7000 piedi ed era settembre avanzato. lo accarezzavo una debole speranza di riuscire ad aprire un passaggio per la discesa, ma le ricerche del giorno dopo mi dimostrarono che questo era già difficile per un piccolo e forte gruppo di scalatori, e del tutto impossibile per un gruppo come il nostro. Eravamo una squadra molto impreparata per scalare, sia pure su una montagna come le Vette.”

Il gruppetto si trova sulla parete nord del Monte Ramezza e qui rimarrà per 3 giorni, sotto la tormenta, senza cibo e senza possibilità di fuggire.

Entro la fine del terzo giorno dovevamo muoverci, volenti o no. Nessuno di noi aveva mangiato per settantadue ore, alcuni avevano le dita gelate, e tutti eravamo irrigiditi dal freddo.

Avevamo perso molto tempo, e, tra le dita gelate e gli arti irrigiditi al punto che per molti camminare era diventato un problema, il mio piano di cercare una via di uscita sicura, lungo la cresta dell’orlo del catino, dovette essere abbandonato e seguimmo il sentiero. Ad ogni passo la fiducia aumentava. Non incontrammo nessuno ed entro lo spuntar del giorno eravamo già distesi in un bosco, con lo sguardo fisso ad una casa colonica sottostante. Uno degli Inglesi che conosceva il posto scese, fu dato il segnale di via libera e di lì a poco stavamo già godendoci il primo pasto dal giorno dell’attacco. I Tedeschi erano partiti il giorno prima, dopo aver bruciato tutte le malghe ed alcune case di contadini nella valle, sospettati di simpatia verso i partigiani.”

Brani tratti da: “Missione «Simia». H. W. Tilman, un maggiore inglese tra i partigiani” di H. W. Tilman, ed. Comune di Belluno, ISBREC, 1981

Nessuno sa dire con certezza come e dove sia stato inventato il gelato, ma tutti nel Bellunese potranno dirvi che i migliori gelatai sono gli Zoldani. Certo è difficile immaginare che possa esistere un forte legame tra gli abitanti di una fresca vallata alpina e un cibo che dà beneficio quando il sole è rovente e il clima torrido. Eppure questa, che è una storia di sacrificio e di emigrazione, accompagna gli abitanti della Val di Zoldo e delle vallate Cadorine da fine ‘800 ai giorni nostri.

Sono migliaia gli artigiani che, a cavallo tra Otto e Novecento, si incamminarono lungo le vie delle più importanti città dell’Impero Austro-Ungarico e contribuirono a rendere il gelato uno dei simboli dell’Italia.
Grazie alla maestria, ad un’esperienza che si tramanda di generazione in generazione e alla capacità di scegliere ingredienti genuini, oggi il gelato è conosciuto e prodotto in tutto il mondo…magari, in una gelateria di Francoforte o di Buenos Aires, potrete trovare i discendenti di una famiglia zoldana.

Visto che la partenza dell’Alta Via Dolomiti Bellunesi è proprio in Val di Zoldo… perchè non partire con la carica giusta assaggiando un buon gelato?

I più silenziosi viandanti avranno sicuramente la fortuna di individuare alcuni mufloni.
Nonostante la specie sia tipica di Sardegna e Corsica e solo a partire dagli anni ‘70 sia stata introdotta nella zona delle Dolomiti Bellunesi, i mufloni qui hanno trovato un habitat assolutamente favorevole.

Nell’altopiano Erera infatti non mancano pascoli montani e arbusteti d’alta quota in cui è facile trovare graminacee e altre erbe da brucare. Corna a spirale e un mantello marrone rossastro con due grosse macchie chiare sui fianchi sono le peculiarità della livrea dei maschi che, durante l’anno, vivono fuori dal gregge in cui trovano invece riparo le femmine con i piccoli.

In tempi in cui l’andar per monti era necessità più che passione, questi più di altri sono stati luoghi di incontro e di scambio. Luoghi in cui si camminava con la speranza di lasciare dietro di sè la miseria, lungo percorsi battuti da contrabbandieri e guardie, da cacciatori e bracconieri.
E pare che Dio, vedendo quanto la zona fosse battuta dai valligiani, abbia voluto dare ai viandanti un silente guardiano.
Da allora la forcella ha un custode, un om de piera come si dice da queste parti, che vigila sui passi di chi, alzando gli occhi alla sua sagoma che vista da lontano assomiglia ad uomo che scala il monte e da vicino al viso di persona, gli sorride passa oltre.

Anche se l’origine del toponimo Piani Eterni non è stata finora chiarita, è innegabile che persino il loro nome parli di una natura misteriosa e per certi versi inquietante.
Il vasto altopiano colpisce fin dal primo colpo d’occhio per le estese superfici di calcari grigi su cui il carsismo ha lasciato profonde e sinuose cicatrici. Crepacci, inghiottitoi, campi solcati si avvicendano in un susseguirsi di forme morbide e arrotondate su cui ci si avventura a fatica, ammaliati dal loro fascino.
Queste superfici nascondono poi un mondo sotterraneo in cui cavità, grotte e cunicoli sono la via attraverso cui l’acqua scorre rapidamente per centinaia di metri alimentano numerose sorgenti carsiche.

La Val Imperina si sviluppa lungo la cosiddetta “Linea della Valsugana“, una faglia inversa che ha genesi in Provincia di Trento e che giunge fino al Cadore attraversando le due regioni obliquamente. Qui il lavoro di movimento della faglia ha condensato i metalli presenti nel sottosuolo in grandi giacimenti, sfruttati dall’uomo quasi sicuramente dall’epoca dell’Impero Romano, ed ha raggiunto il suo apice tra il XVII ed il XVIII Secolo sotto la dominazione della Serenissima e la gestione della Famiglia Crotta di Lecco.

L’acquisto delle miniere della Valle Imperina fu attuato dal capostipite della famiglia, Francesco Crotta, nel 1615. La fortuna di Francesco rispetto a quella dei suoi predecessori fu sancita, oltre che dal gradimento della sua persona in ambiente politico, anche da un’importante contingenza storica: l’arrivo in valle della polvere da sparo, mezzo che permetteva di risparmiare i tempi biblici dello scavo a mano. In questo periodo, le Miniere di Val Imperina erano talmente fruttuose da saturare il 50% il fabbisogno di rame di Venezia e da diventando uno dei bacini minerari più importanti d’Europa.

Il declino del Centro Minerario cominciò dalla fine del XVIII Secolo e si protrasse per tutto l’800; esso era principalmente dovuto al crepuscolo della Repubblica di Venezia ed al prezzo decisamente inferiore al quale si poteva acquistare il rame americano. Vennero a mancare simultaneamente sia gli acquirenti che i mercati in cui vendere il rame della Valle Imperina.

La produzione tuttavia continuò per buona parte del XX Secolo con l’acquisizione del complesso da parte della Montecatini (poi Montedison) e la produzione di acido solforico tramite l’estrazione e la lavorazione della pirite. L’industrializzazione e la modernizzazione del sito minerario richiese grossi investimenti e la costruzione di diverse centraline idroelettriche ed addirittura di una linea ferroviaria privata (la vecchia locomotiva è esposta sulla SR 203 all’altezza del parcheggio di accesso al Centro Minerario).

A dare il colpo di grazia ad un settore già in crisi fu, oltre alle restrizioni della produzione italiana di materie prime dovute al Piano Marshall, la tremenda alluvione del 1966.

Il sito minerario è stato oggetto negli ultimi decenni di massicci lavori di ristrutturazione che hanno restituito al pubblico numerosi ed imponenti edifici del complesso.

(tratto da “https://agordinodolomiti.it/it_IT/index.php/cosa-vedere/storia/centro-minerario-di-valle-imperina/”)

La Certosa di Vedana, ai piede del Piz di cui porta il nome, per secoli ha accolto i viandanti che percorrevano la Val Cordevole tra la Valle del Piave e l’Agordino.

L’architettura dell certosa, severa e pulita, risponde alla vita monacale dedita alla contemplazione e alla preghiera che lì si conduceva e che diventava punto di incontro tra il mondo clericale e quello laico.
Un punto d’incontro che oggi può unire viandanti di ieri e di oggi, incantati i suoi visitatori con paesaggi sublimi e atmosfere degne di uno dei monumenti più importanti dell’intera Provincia di Belluno.

Il 26 giugno 2009 il Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’ UNESCO ha accolto le Dolomiti nell’elenco del Patrimonio Mondiale, conferendo ad esse il massimo riconoscimento mondiale per un sito naturale. Le Dolomiti sono state classificate come luogo unico al mondo per la bellezza del loro paesaggio e per la loro importanza sotto il profilo geomorfologico e geologico.

Il sito si compone di 9 sistemi montuosi separati fra loro e l’Alta Via Dolomiti Bellunesi attraversa interamente il sistema n. 3 – Pale di San Martino, San Lucano, Dolomiti Bellunesi, Vette Feltrine.

Guardando una mappa che raffigura i sistemi delle Dolomiti Patrimonio UNESCO sembra proprio di vedere la Val Zoldana come il centro geografico ideale di questo complesso mondo. Un arcipelago composto da vari siti, proprio come milioni di anni fa, quando i monti Pallidi erano atolli e vulcani di un vero arcipelago, oggi fossile.

Il nome Dolomiti deriva da suo scopritore, il francese Déodat de Dolomieu che, durante un viaggio in Tirolo, trovò una pietra che, analizzata, risultò essere un nuovo minerale, quella che oggi chiamiamo Dolomia.

Il Museo del Ferro e del Chiodo è un modo assolutamente inedito di scoprire la Val di Zoldo.
È infatti ancora forte il ricordo dei tempi in cui i ciòdarot e i fabbri zoldani erano famosi per la maestria con cui plasmavano il ferro e davano vita a chiodi di una raffinata fattura.
Il museo, attraverso le sale in cui è suddiviso, racconta come i valligiani abbiano vinto la sfida di vivere in un territorio così ostile seppur bellissimo.
Accanto alle sezioni che ricostruiscono la vita di un tempo, largo spazio è stato dedicato alle antiche miniere e di come la loro scoperta abbia condotto all’attività dei forni fusori e dei magli, fino alla produzione del chiodo otto-novecentesca.
Una filiera, diremmo oggi, che il museo ha ricostruito partendo da ricordi individuali e collettivi e che oggi propone al pubblico attraverso le riproduzioni di documenti d’archivio, oggetti e una eloquente sequenza fotografica delle fasi di realizzazione di una brocca da scarpe.

La forcella Van de Zità Sud, con i suoi 2.395 m, è il punto più alto raggiungibile nel Parco attraverso sentieri escursionistici. È quindi il luogo perfetto per farsi rapire dalla maestosità del paesaggio d’alta quota che lì domina in maniera potente.

I due splendidi circhi glaciali dei Van de Zità, de Entro e de Fora, sono separati da Le Prison. Questa cima deve il nome, le prigioni, ai fenomeni carsici che ne hanno modellato la forma. L’acqua che nei secoli è filtrata su queste rocce ha scavato dei solchi che ricordano le sbarre di una cella. Un’immagine che stride con l’ampiezza di quei paesaggi e che si imprime nella memoria.