Nel percorrere la sesta tappa, dal rifugio Boz al rifugio Dal Piaz vi troverete nel mezzo di un luogo incredibile, riserva integrale ( è vietato uscire dal sentiero!), dove si respira un’aria allo stesso tempo misteriosa e magica. Enormi macigni sparsi ovunque, che sembrano davvero scagliati da una forza demoniaca, zona da sempre al centro delle leggende popolari, abitata da diavoli e streghe.

Una delle più celebri narra che, qualche secolo fa, il parroco di Vignui, infastidito dalla presenza di streghe sul territorio che era sotto la sua cura, convinse i paesani a salire in processione fin sulle Vette. Una volta arrivati, piantò una bella croce nel mezzo della Piazza del Diavolo e cosparse di acqua santa tutta la zona, riuscendo così a scacciare le streghe e a liberare la sua parrocchia dai loro malefici.

La Piaza del Diaol appare in tutto il suo splendore nelle giornate di bel tempo, se vi trovate ad attraversarla con la nebbia però, prestate molta attenzione ai segni sui massi, è facile perdere l’orientamento…e chissà, magari potreste incontrare anche qualche diavoletto!

Simbolo della città di Belluno, la Gusela del Vescovà si staglia su un terrazzino ai piedi della cima della Schiara.

“Piccola, ma arditissima guglia, ben visibile dalla Val Belluna ma anche dall’Alpago, da molti punti dell’Agordino, dalla Marmolada, ecc. Benché alta solo 40m, si impone per la purezza delle linee e per l’isolamento in cresta, sull’orlo di un grandioso precipizio. È il più singolare gioiello del gruppo ed il simbolo per eccellenza dell’alpinismo bellunese”

definizione della Gusèla fatta dal grande Piero Rossi nella sua guida ‘Schiara’ della collana ‘I monti d’Italia’ edita da CAI.TCI nel 1982.

Il nome “gusèla” (ago nel dialetto bellunese) è probabilmente stato coniato sul versante agordino ed è quello più in uso, tuttavia questa guglia ha un altro bel nome valligiano, d’origine bellunese, di Pónta de Priéta o Pónta de la Priéta (in bellunese piccola “pria”, ovvero pietra cote, usata per affilare le falci).

Ottone Brentari, che compilò le prime guide alpinistiche del Veneto e Trentino (anni 1880 – 1890), riporta nella sua guida ‘Guida storico – alpina di Belluno-Feltre – Primiero – Agordo e Zoldo’ :
… la città è difesa dai venti settentrionali da un’ampia cinta rocciosa, nella quale si alza al cielo, ardita come un minareto, la curiosa Gusella di Vescovà, detta anche Prieta…

Per la popolazione bellunese, quel singolare ago roccioso è rimasto per lungo tempo qualcosa da ammirare alzando la testa e sul quale fantasticare.
Solo nel 1909 il primo serio tentativo della sua conquista sancì il passaggio ai fatti. Nel luglio di quell’anno alcuni ufficiali del 7° Reggimento Alpini raggiunsero la forcella tentando, con una rudimentale scala, di superare il primo tratto. Purtroppo il tentativo fallì, ma non si spense il desiderio di conquistare quella cima, tanto che a Belluno venne addirittura istituito un comitato per promuovere la conquista dell’inviolata guglia.

A quel primo tentativo partecipò anche il S. Tenente Arturo Andreoletti, già noto nel mondo dell’alpinismo per alcune sue importanti ascensioni, tra le quali la prima italiana alla Sud della Marmolada e la magnifica grande prima sulla parete nord dell’Agner.
Motivato dal fascino dell’impresa incompiuta, dai tanti sostenitori e dalla partecipazione di Francesco Jori (altro grande alpinista con il quale conquisterà in seguito la parete settentrionale dell’Agner), decise di dare il secondo assalto alla Gusèla.
Alle 13:30 del 14 settembre 1913 da Belluno fu avvistato il garrire del tricolore issato sulla sommità della Gusèla de Vescovà: l’inviolabile cima era stata conquistata.

Lo scrittore Dino Buzzatti

Pure Dino Buzzati, scrittore di origine bellunese e grande amante del gruppo della Schiara guadagnò la vetta di questa guglia e si espresse a riguardo:

“Quelli che vanno su a Cortina di solito passano per Belluno con una furia tale, manco si fermano a prendere un caffè, manco levano per un istante gli occhi a guardare lo Schiara con la sua immortale Gusèla”

 

Fiorisce a luglio e si nasconde nelle zone fresche e ombrose, ad una quota che va dagli 800m ai 2000m.
Timida quanto affascinante, si mostra solo a chi sa cercarla nei posti giusti. Rara e resistente, secondo i botanici così antica da essere un relitto della flora tardo terziaria, sopravvissuta alle glaciazioni.

Il nome scientifico attribuitogli da Linneo, richiama due importanti precursori della botanica scientifica: Jacopo Antonio Cortusi, gran ricercatore di piante rare che per primo individuò in Italia la nuova pianticella comunicandone la scoperta a Pier Andrea Mattioli, medico, botanico ed umanista senese suo contemporaneo.

La Cortusa, oltre ad essere rara, è una specie protetta, vi raccomandiamo di non uscire dai sentieri per non danneggiare i luoghi nei quali cresce!

Una delle piante più riconoscibili delle nostre montagne è sicuramente il maggiociondolo, soprattutto nel periodo della fioritura, che come suggerisce il nome, inizia a maggio e termina in luglio.
Con i suoi fiori giallo intenso penzolanti ha ispirato poeti e scrittori quali Francis Thompson, che gli dedicò alcuni versi e J. R. R. Tolkien che prese ispirazione proprio dal maggiociondolo per creare uno degli alberi magici de Il Silmarillion.

Crescendo a quote comprese tra i 600 e i 1600m, non forma boschi puri, ma lo si può con sorpresa incontrare di tanto in tanto, in freschi e umidi boschi di latifoglie, nascosto tra carpini e faggi, a seconda dell’altitudine.

Una particolare caratteristica di questa pianta è quella di avere un legno, soprattutto in età avanzata, il cui colore è molto simile a quello dell’ebano, in quanto l’ossidazione del fusto gli conferisce una tinta bronzea.

Un albero dalle parvenze magiche, ma al quale le credenze popolari attribuivano dei connotati negativi, tra i quali il fatto che, un tempo, i suoi rami flessibili e resistenti servissero per costruire archi molto potenti e letali. Inoltre, alcune parti di questa pianta risultano fortemente tossiche, tuttavia alcuni animali possono ingerirle senza problemi.

Se passate dal rifugio Boz, chiedete allo storico gestore Daniele di farvi assaggiare la grappa di eghel (maggiociondolo in dialetto bellunese), ma attenti a non esagerare!

Le Vette Feltrine costituiscono un piccolo sistema orografico di grande suggestione paesaggistica e di elevatissimo valore ambientale. In questo scenario naturale, uno straordinario patrimonio floristico, ricco di endemismi e di specie rare, si inserisce mirabilmente nell’ambiente geologico delle rupi, dei ghiaioni e delle rocce modellate dai ghiacciai e dal carsismo. Questo importante segmento delle Dolomiti Bellunesi rappresenta un settore privilegiato per l’osservazione del paesaggio geologico e geomorfologico del Parco (I Circhi delle Vette. Itinerario geologico-geomorfologico attraverso le Buse delle Vette. D. Giordano, L. Toffolet, in Itinerari nel Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi n° 2, ed. Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi).

Attorno al rifugio Dal Piaz è possibile percorrere un anello attraverso un’insolita e spettacolare successione di circhi glaciali sospesi, i Circhi delle Vette (o Buse), modellati durante l’ultima glaciazione e successivamente dalla neve e dal carsismo, in un ambiente di rara bellezza arricchito da una flora unica al mondo. Un’occasione per «leggere» il paesaggio con occhi nuovi.

Così Giorgio Dal Piaz descriveva questa zona «…una successione di conche disgiunte da sottili catene, spesso dei semplici crestoni, i quali nella generalità dei casi, scendono a picco sul fondo pianeggiante di queste conche, la cui fronte si apre sopra dirupati burroni.»
Il sentiero attraversa una sequenza di rocce sedimentarie di origine marina (età compresa tra il Giurassico e il Cretacico inf.), raggruppate, in base alle caratteristiche litologiche e alla loro posizione stratigrafica, nelle seguenti formazioni geologiche: Calcari Grigi – Rosso Ammonitico Inferiore – Formazione di Fonzaso – Rosso Ammonitico Superiore – Biancone. Questa è anche la zona del Parco più interessante dal punto di vista paleontologico, per la grande diffusione e varietà di fossili, oggetto di studi già dalla fine dell’Ottocento.

Dell’esistenza di siti d’interesse minerario nel comune di Gosaldo si è a conoscenza da tempi antichissimi, si presume già in epoca romana, ma lo sfruttamento di tali risorse ebbe rilievo solo sotto il dominio veneziano.
Nella zona della Vallalta le prime ricerche ed estrazioni del cinabro (solfuro di mercurio) risalgono al 1740, per concessione della Serenissima. Probabilmente con estrazioni a cielo aperto, il minerale veniva poi trasportato a dorso di mulo filo a Murano, dove si procedeva alla distillazione e al successivo utilizzo per la produzione del vetro. Gli alti costi di trasporto, dovuti ai lunghi e impervi tragitti che la materia prima doveva percorrere, non permisero uno sviluppo sostanziale dell’area fino al 1854, anno in cui grazie la realizzazione della galleria O’Connor fu finalmente scoperta la presenza di un ricco filone di minerale di mercurio naturale.

Forte dei positivi risultati ottenuti e della certezza di una produzione duratura nel tempo, la Società Montanistica Veneta diede il via alla realizzazione di forni per la distillazione del cinabro, permettendo una rapida crescita del benessere nella zona e arrivando all’impiego di circa 200 persone solo in ambito minerario, oltre ad un gran numero impegnati in attività di servizio.
Ci fu inoltre un notevole progresso nelle tecnologie minerarie adottate, le quali portarono all’invenzione di un particolare forno a condensazione, che con il nome di “forno di Vallalta” divenne famoso nella storia della metallurgia. Il momento di massimo sviluppo si ebbe tra gli anni ’60 e ’70 dell’800, quando queste miniere erano tra le prime 10 a livello europeo per la qualità di mercurio.

Numerosi borghi nelle vicinanze delle miniere videro un notevole sviluppo, ma la storia a livello economico e sociale più interessante è senz’altro quella di California del Mis.
Nato nella seconda metà dell’ottocento attorno alla locanda “alla California”, mantenne questo toponimo con il chiaro riferimento allo stato americano, in quanto sviluppatosi grazie ad una vera e propria “corsa all’oro”, indotta dai miraggi di facili guadagni derivanti dal sottosuolo e da molte altre attività collaterali.
California divenne in breve tempo una località frequentatissima, tanto che la locanda di minatori divenne in breve tempo un elegante albergo con ristorante.
Parallelamente, a partire dal 1921, nasceva un sistema di trasporti efficiente: una bella strada che si dipartiva dalla Provinciale della Valle del Mis permetteva un facile accesso anche ai trasporti pubblici, così, di pari passo con il crescente progresso della zona, vennero edificate nuove case e California divenne un importante crocevia montano, famoso in tutta la Valbelluna.

Conseguentemente a mancati introiti e alcuni tragici incidenti, le miniere di Vallalta vennero definitivamente chiuse nel 1963. Con l’abbandono delle miniere, California accusò senz’altro un duro colpo sotto l’aspetto economico, tuttavia la sua crescita, parimenti a quella degli altri borghi sparsi nella vallata, era ad un punto tale da poter garantire il mantenimento delle popolazioni residenti nell’alta Valle del Mis. Purtroppo la tragica e disastrosa alluvione del 4 novembre 1966 spazzò via ogni speranza di imprenditori, commercianti e valligiani di mantenere vivi quei luoghi. L’alluvione, che distrusse gran parte dell’Agordino, non lasciò di California che il ricordo di qualche anziano e un insieme di ruderi.

Camminando lungo i sentieri di montagna, intorno ai 2000 metri di quota, uno degli animali più facili da incontrare è sicuramente la marmotta.

Questo simpatico mammifero, lungo tra 45 e 65cm e il cui peso si aggira attorno ai 5kg, vive in prati e brughiere delle Alpi, ma è stata reintrodotta con successo anche nei Pirenei.

É frequente vedere, al limite dei boschi, delle buche profonde scavate nel terreno: quelle sono le porte d’ingresso della tana della marmotta. Infatti, questo roditore predispone più accessi alla propria tana, creando una rete di gallerie sotterranee.

Le marmotte vivono in famiglia: il maschio, la femmina e i loro cuccioli, per questo, quando se ne avvista una è molto probabile che ce ne siano altre nelle vicinanze. Nella bella stagione si aggirano nei pressi della tana in cerca di erbe, germogli, fiori e radici, oppure per starsene semplicemente al sole, tuttavia sono sempre in allerta per l’eventuale presenza di predatori nell’area.

A tal proposito risultano molto organizzare: durante la ricerca del cibo una marmotta ha il compito di fare da “sentinella”, riconoscibile dalla tipica posizione eretta sulle zampe posteriori. In caso di pericolo, la prima marmotta che avvista un predatore dà l’allarme emettendo una serie di acutissimi fischi. Se ti dovesse capitare di sentire un unico lunghissimo fischio, alza la testa perché con molta probabilità a minacciare la quiete di questi curiosi animaletti è il volo dell’aquila reale.

Hanno un’ottima organizzazione anche per la stagione invernale: circa 10 o 15 esemplari si radunano in un unica tana, che viene preparata per il freddo lasciando un unica galleria d’ingresso. Più il gruppo è numeroso all’interno di tale tana, maggiori sono le probabilità di sopravvivere.

Grazie al grasso accumulato durante la bella stagione, riescono a superare i rigidi inverni al quale l’alta quota le costringe, rimanendo in letargo, abbassando la temperatura corporea e diminuendo notevolmente i battiti cardiaci.

Aguzza bene la vista se passi per i Piani Eterni o nei pressi delle Vette Feltrine dove vivono diverse famiglie di questo buffo animaletto, è tuttavia più facile che siano loro ad avvistare te per prime.

Scendendo dalle Vette feltrine, nell’ultima tappa dell’Alta Via, incontrerete tipiche strutture in muratura conosciute con il nome di maiolère, ricordo dei vecchi tempi in cui le terre alte erano vissute e curate dai pastori.

Al di sopra dei 6-700 metri di quota, in quella che era la fascia del pre-alpeggio un tempo ricca di pascoli, dagli insediamenti rurali permanenti si passa gradualmente a quelli temporanei, ovvero stalle e semplici abitazioni, utilizzate prevalentemente nel periodo primaverile, prima di portare i bovini alle malghe. Attraverso i pascoli delle Camogne e dei Paradìs troviamo stalle a gradoni, di impronta germanica, caratterizzate da spioventi molto inclinati originariamente coperti a paglia fissata con delle lastre. In questo tipo di costruzioni, al pianterreno vi era la stalla e sopra il fienile a cui si accedeva dal retro, sfruttando il pendio della montagna.

Più tipica dell’area pedavenese, con la medesima finalità, è invece la maiolèra, costituita da due edifici dal diverso orientamento: la stalla e la casèra. Quest’ultima, ad un unico ambiente, era dotata di larìn, focolare per il riscaldamento e la preparazione dei cibi. La copertura, inizialmente in lastre di pietra, venne progressivamente soppiantata da quella in coppi. Sopra la stalla, seminterrata e realizzata in muratura, si estendeva il fienile, aperto ma protetto da tavolati per consentire la circolazione dell’aria. In alcuni casi questi due edifici erano fusi: al piano terra vi erano casèra e stalla con ingressi distinti, e in quello superiore, accedendo dal retro, il fienile. Il foraggio che vi veniva sistemato era falciato nell’attiguo pascolo dove erano anche le caratteristiche méde (grandi covoni).

Il Sass De Mura si erge tra le Alpi Feltrine, come una possente bastionata rocciosa, avvolta da una cintura di cenge, le “banche”, che celano accessi più o meno articolati alle sue due cime.
E’ la prima cima ad accogliere chi sale dalla pianura, ma è soprattutto la cima degli alpinisti feltrini, custodita gelosamente, che grazie al suo carattere selvaggio e severo, ancora oggi sfugge al turismo di massa.

I primi a salire in vetta al Sass de Mura, sulla cima ovest, furono tre alpinisti britannici, Richard Beachcroft, Arthur Cust e Charles Comyns Tucker e la guida di Chamonix Francois Devouassoud. Compirono l’ascensione il 6 settembre 1878, lungo la cresta occidentale provenendo dai Cadìn de Nèva. Ma fu una conquista parziale, infatti si fermarono sulla cima minore, rinunciando alla traversata fino alla cima principale, ritenendola un problema alpinistico di impossibile soluzione.
La traversata tra le due cime sarà compiuta il l 9 agosto 1884, da tre alpinisti austriaci, precursori dell’alpinismo “senza guide”: i fratelli Otto e Emil Zsigmondy e Ludwig Purtscheller.

La cima maggiore del Sass De Mura viene conquistata il 23 agosto 1881, dal versante est con passaggi di terzo grado, da una cordata italo-austriaca: Luigi Cesaletti, Demeter Diamantidi e dal cacciatore di camosci e contrabbandiere Mariano Bernardin detto Gabian.
Era la prima volta che una Guida Alpina bellunese, e quindi italiana, e una Guida Alpina trentina, e quindi residente nell’Impero austro-ungarico, scalavano insieme una montagna.

Da ricordare come Luigi Cesaletti, quattro anni prima, aveva salito in solitaria la Torre dei Sabbioni, dando uno scossone in termini di mentalità e di tecnica all’alpinismo dolomitico.

La via Cesaletti-Diamantidi-Bernardin nel 1946 prenderà il nome di via “della Croce” quando, per celebrare la nascita del primo Gruppo Rocciatori Feltrini, fu portata sulla cima maggiore del Sass de Mura una croce, oggi andata distrutta.

La campanula di Moretti è un fiore coraggioso, cresce dove pochi altri si azzardano a farlo e dona vita e colore alle pareti rocciose, anche alle più impervie.

É una specie endemica delle Dolomiti, dalle belle e vistose fioriture di colore violetto (fiorisce dopo la metà di luglio), la si trova di frequente nel territorio del Parco, sulle rupi umide ad una quota superiore ai 1000 – 1200 metri.

È il simbolo del Parco delle Dolomiti Bellunesi e vi accompagnerà durante l’Alta Via, seguite il nostro logo e scovatene i fiori tra le fessure…ricordate però che è una specie protetta!